giovedì 15 settembre 2016

L'India senza gli Indiani, la mostra di Stefania Beretta


È possibile raccontare un Paese, solo attraverso oggetti, muri, dettagli di vita quotidiana, senza mai puntare l'obbiettivo sui suoi abitanti?
La fotografa ticinese Stefania Beretta ci dimostra che non solo è possibile, ma che proprio l'assenza di soggetti umani riconoscibili, costringe ad andare oltre una narrativa esotica di volti, occhi, espressioni a cui siamo ormai tradizionalmente abituati.
La sua mostra personale Una segnaletica dell'essere, che racconta del suo rapporto trentennale con l'India, è al Museo d'arte moderna di Ascona fino al 9 ottobre, curata da Mara Folini, Viana Conti ed Ellen Maurer Zilioli.



L'impressione è di essere di fronte ad una fotografia pittorica, che ha come soggetti vere e proprie nature morte, in cui anche gli esseri viventi, fatti piedi, lembi di vestiti, sagome, diventano frammenti di un quadro più ampio di vita quotidiana.
Nelle varie sale si coglie profondamente il percorso di ricerca della fotografa, che sperimenta fra bianco e nero, colore, ricami di fili colorati.
Le foto della sezione Rooms sono le più antiche risalenti agli anni '80-'90, tutte in bianco e nero. Stanze di albergo di città differenti, Benares, Pune, Mumbai e di nuovo anche qui l'iconografia tradizionale non ci aiuta, niente fiumi sacri, templi, monumenti, ma solo letti sfatti e dettagli apparentemente inutili che appartengono ben di più alla quotidianità dell'India: un geco, la zanzariera, il ventilatore.



Il bianco e nero permette all'artista di studiare squarci di luce nel buio. Nature morte in primo piano alla Giorgio Morandi, attenzione allo studio della luce come troviamo in Edward Hopper, soffitti al centro della scena che ricordano inquadrature cinematografiche alla Orson Welles.
La figura umana solo una sagoma, dettaglio fra i dettagli di un ambiente senza vita.
Il colore invece è il protagonista della sezione Indian walls, in cui un albero abbarbicato su un muro è simbolo di una vita strenua, estrema ma pur sempre vita.


Fili si intrecciano su muri scrostati di vecchie vernici, muri parlanti che raccontano una storia senza parole, mostrando una stratificazione di colore, manifesti secondo la tecnica di Mimmo Rotella, che però qui è solo documentata dall'obbiettivo di Beretta, senza alcun intervento diretto.


La sezione più recente, risalente agli ultimi anni, è anche quella che mi è risultata più enigmatica. Anche qui l'artista si avvale del colore, ma ne fa un uso diverso, più estetico, ricercando immagini che restituiscano anche la bellezza dell'India.


Eppure l'estetica sembra voler andare oltre l'immagine, attraverso interventi personali con ricami colorati per rendere le foto uniche, ma quasi a volerle ornare ulteriormente: un albero scheletrico abbellito da fili d'argento, un fiore aggiunto in un giardino.



Si creano così due livelli di lettura di fronte allo spettatore, l'immagine originale e l'intervento che sovrapponendosi esce quasi in terza dimensione, due livelli in qualche modo distinti o fusi insieme a seconda di come si guarda il soggetto.

Coronano l'esposizione alcune particolari installazioni dal significato emblematico: sterco di mucca, una testa scolpita di una dea indiana e un sasso rotondo stretto tra corde su una sbilenca struttura in ferro, simbolo forse di un'India che in sé ha tutto, ma spinta da forze differenti, sembra così fragile eppure sempre così in equilibrio.

di Cristina Radi


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