lunedì 12 dicembre 2016

Memento mori? La mostra di Javier Marìn a Casa Rusca di Locarno fino all'8 gennaio 2017

Memento mori? Potrebbe forse essere questo un possibile sottotitolo alla bella mostra dell'artista messicano Javier Marìn (1962), con l'allestimento a cura dell'archistar Mario Botta, in corso alla Pinacoteca Casa Rusca di Locarno fino all'8 gennaio 2017.


È un'esposizione in cui risaltano forti i contrasti: luci e ombre, pieni e vuoti, pesantezza e fragilità, morte e vita, materiali perenni e deperibili. 
Concetti che certo non possono lasciare indifferente, neppure il visitatore meno avvezzo all'arte contemporanea. Ed infatti uno degli obbiettivi dell'arte di Marìn è cercare di dare un messaggio universale, anche allestendo grandi esposizioni all'aperto in luoghi cittadini di passaggio, perché appunto non può sfuggire che ovunque trapela dalle sue opere, il senso della precarietà della condizione umana.

Grandi teste, giganteschi corpi sovrastano lo spettatore e sembrano disfarsi, liquefarsi da un momento all'altro. Corpi pesanti, come è pesante a volte la condizione corporea, ma anche corpi costruiti e poi distrutti, caratterizzati da profondi tagli o a pezzi, tenuti insieme da fil di ferro. 
Un'operazione che di primo acchito sembrerebbe una vera e propria insensata fatica di Sisifo: un'opera viene creata pressoché perfetta, per poi essere tagliata, rotta e ricostruita.
Ma è un po' anche questo il ciclo della vita, alla nascita ci viene affidato un involucro quasi perfetto che man mano si taglia, si decompone, si disfa sistematicamente ed inesorabilmente di giorno in giorno.

A ragione ho letto in più fonti che nell'arte di Marìn si distinguono anche influssi di origine barocca; un barocco tetro e teatrale allo stesso tempo, in cui il disfacimento degli elementi ha anche una componente quasi voyeuristica di esposizione allo sguardo altrui, come nel caso dei Muertitas e Muertitos, salme già in obitorio o corpi in esposizione con etichette da negozio.
L'impiego dei materiali è anche sintomatico: terracotta e resina modellate fino a cercare la plasticità e la trasparenza della pelle. La resina viene poi spesso accompagnata da materiali organici assolutamente deperibili come piante, semi, petali e carne essiccata, a cercare l'effetto differente e a testimoniare che forse neppure l'arte nel suo voler fissare l'attimo, in fondo è eterna.

Del resto non è forse proprio in Messico che si celebra una delle più famose Dia de los muertos, dal concetto tutto sudamericano della cultura della morte prende forse avvio la riflessione dell'artista, fra esistenzialismo e ironia, come nel caso delle gigantesche parti anatomiche - occhi, nasi, bocche, ma anche natiche e sessi - che fanno capolino dalle riquadrature lignee (Relieves cuadrados) o dei piccoli uomini e donne di Hombresitos y mujercitas, che nell'allestimento sono stati posti strategicamente in una parete verticale da soli o in gruppetti di due o tre quasi in chiacchiere da piazza per sottolinearne ancora come la condizione della precarietà ci appartenga persino mentre ci occupiamo delle cose più comuni.


di Cristina Radi

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